C'era una volta un cane
che non sapeva abbaiare.
andò da un lupo a farselo spiegare,
ma il lupo gli rispose
con un tale ululato
che lo fece scappare spaventato.
Andò da un gatto, andò da un cavallo,
e mi vergogno a dirlo
perfino da un pappagallo.
Imparò dalle rane a gracidare,
dal bove a muggire,
dall'asino a ragliare,
dal topo a squittire,
dalla pecora a fare « bè bè »,
dalle galline a fare coccodè.
Imparò tante cose,
però non era affatto soddisfatto
e sempre si domandava
magari con un « qua qua »:
Che cos'è che non va?
Qualcuno gli risponda, se lo sa.
Forse era matto?
O forse non sapeva
scegliere il maestro adatto?
(Gianni Rodari)
Foto: www.flickr.com/photos/thomasrstegelmann/2048495241/
lunedì 24 novembre 2008
domenica 23 novembre 2008
Essere umani vuol dire
sentire vagamente che c'è in ognuno qualcosa di tutti e in tutti qualcosa di ognuno.
Niente mi fornisce la prova che non sarei mai del partito o dell'opinione opposta. C'è la vittima nel carnefice e il carnefice nella vittima, il credente nel non credente e il non credente nel credente. C'è di che passare dall'uno all'altro; e forse l'essenza stessa del vero Io è questa potenza di trasformazione.
Su mille individui, un esiguo numero sente e guarda la vita come tentativo, mezzo, avventura. Il resto la subisce senza pensarci, come un ciclo la cui perfezione sarebbe la felicità. Per tutti è qualcosa di dato, involontario, e tuttavia come voluto, giacché non possono non volere la vita.
Paul Valéry, Cattivi pensieri, Adelphi
Niente mi fornisce la prova che non sarei mai del partito o dell'opinione opposta. C'è la vittima nel carnefice e il carnefice nella vittima, il credente nel non credente e il non credente nel credente. C'è di che passare dall'uno all'altro; e forse l'essenza stessa del vero Io è questa potenza di trasformazione.
Su mille individui, un esiguo numero sente e guarda la vita come tentativo, mezzo, avventura. Il resto la subisce senza pensarci, come un ciclo la cui perfezione sarebbe la felicità. Per tutti è qualcosa di dato, involontario, e tuttavia come voluto, giacché non possono non volere la vita.
Paul Valéry, Cattivi pensieri, Adelphi
venerdì 21 novembre 2008
"Nissuno nasce imparato". Ma se non si impara, la colpa è (spesso) solo nostra.
"Torniamo alla domanda: come trasformare i pensieri in atti? Ho già detto che è difficile correggersi, anche quando si fa di se stessi l'oggetto d'analisi. Ho dato un esempio per dimostrare che non si “corregge”, ma che si sviluppano nuovi atteggiamenti. Come probabilmente avete già pensato, l’intenzione, per essere messa a profitto, deve essere seguita da un’azione corretta, al fine di poter acquisire una nuova abitudine, migliore della precedente. Senza questo, l’analisi è inutile come il pensiero fine a se stesso. Qualunque cosa si intraprenda, nessun progresso è possibile se non si acquisiscono delle nuove abitudini. Senza l’azione, tutti i pensieri e le analisi di se stessi non portano a niente. È per questo che è essenziale creare l’abitudine ad agire, di mettere le cose in pratica. Qualunque abilità può essere acquisita con la ripetizione costante. E noi possiamo applicare immediatamente questa regola d’ora. Se avete intenzione di fare qualcosa, per insignificante che sia, fatelo subito senza dilazioni. Incoraggiatevi da soli e portate i vostri progetti a buon fine senza scoraggiarvi. Quando l’abitudine si è radicata, ciò che vi sembrava irrealizzabile potrà compiersi e le porte si apriranno su nuovi orizzonti.
Il detto “si impara facendo” non è così semplice come appare a prima vista, ma non rifiutatelo come se non vi riguardasse. Riguarda tutti noi.
da: Shinichi Suzuki, Crescere con la musica, Nuova Carisch 1996
Foto: courtesy of Flickr (www.flickr.com/photos/rammorrison/481677631/)
Il detto “si impara facendo” non è così semplice come appare a prima vista, ma non rifiutatelo come se non vi riguardasse. Riguarda tutti noi.
da: Shinichi Suzuki, Crescere con la musica, Nuova Carisch 1996
Foto: courtesy of Flickr (www.flickr.com/photos/rammorrison/481677631/)
mercoledì 19 novembre 2008
Saper vedere.
C’è una grande, abissale differenza tra guardare e vedere. Costantemente guardiamo il mondo intorno a noi, ma cosa vediamo davvero? Quello che ci circonda oppure semplicemente quello che pensiamo di doverci trovare? Chi di noi sarebbe in grado di descrivere, precisamente, il quadro che si trova nella sala riunioni del proprio ufficio o persino sopra il proprio letto; chi saprebbe disegnare in maniera realistica i tratti del viso delle persone che vediamo tutti i giorni, sui mezzi o in ufficio?
Guardiamo sempre, scrutiamo, fissiamo, cerchiamo... ma raramente vediamo. L’arte inizia proprio lì: da uno sguardo diverso dell’artista. E, mi verrebbe da dire, è il punto dove inizia anche la vita, vissuta consapevolmente. Smettendo di cercare quello che pensiamo di volere, per indagare cosa davvero ha da proporci la vita.
Qualche testimonianza diretta dalle parole di artisti:
James Lord ha dato la seguente descrizione della reazione dell’artista Alberto Giacometti allo spazio vuoto: «Si rimise a dipingere, ma dopo qualche minuto si voltò a guardare nel punto dove fino a poco prima c’era stato il busto, come se volesse riesaminarlo, ed esclamò: “Oh, non c’è più!” Gli ricordai che Diego lo aveva portato via, ma egli disse: “Sì, ma io credevo che ci fosse. Ho guardato e d’un tratto ho visto il vuoto. Ho visto il vuoto. E’ la prima volta che mi capita nella vita».
James Lord, A Giacometti Portrait
Conversando con l’amico André Marchand, il pittore francese Hénri Matisse descrisse in questo modo il passaggio da un tipo di percezione ad un altro: «L’uomo, sapete, ha soltanto un occhio che vede e registra tutto, un occhio che è come una straordinaria macchina fotografica che riprende immagini minute, molto nitide, minuscole; e con quell’immagine, l’uomo dice a se stesso, e per un momento è tranquillo. Poi, sovrapponendosi gradualmente all’immagine, compare, senza che lui se ne accorga, un altro occhio, che riprende un’immagine completamente diversa. “E a questo punto il nostro uomo non vede più chiaramente; ha inizio una lotta tra il primo occhio e il secondo, una lotta feroce, e alla fine il secondo occhio ha la meglio, assume il controllo e così la lotta finisce. Ora che ha in mano la situazione, il secondo occhio può continuare il suo lavoro da solo ed elaborare la propria immagine secondo le leggi della visione interiore. Questo occhio speciale si trova qui” disse Matisse, indicando il cervello.
J. Flam, Matisse on Art
“L’artista è il confidente della natura. I fiori dialogano con lui per mezzo dell’aggraziato curvarsi dei loro steli e del loro dischiudersi in armoniose sfumature di colori. Ogni fiore ha per lui una parola cordiale che la natura gli rivolge”.
Auguste Rodin
“E’ per vedere più chiaramente, per vedere ancor più in profondo, ancor più intensamente, ed essere quindi pienamente consapevole e vivo, che disegno ciò che i cinesi chiamano ‘Le diecimila cose’ che ci circondano. Il disegno è la disciplina per mezzo della quale riscopro costantemente il mondo. Ho imparato che le cose che non ho disegnato non le ho mai viste veramente, e che, quando mi metto a disegnare una cosa qualsiasi, essa mi si rivela straordinaria, un puro miracolo”.
Frederick Franck, The Zen of Seeing
“Quando il bambino comincia a disegnare qualcosa di più che semplici scarabocchi – cioè all’età di tre o quattro anni – la sua memoria e il suo procedimento grafico sono già dominati da un insieme consolidato di conoscenze concettuali formulate in termini di linguaggio… Un disegno è così un resoconto grafico di un processo essenzialmente verbale. Man mano che la sua formazione verbale diventa dominante, il bambino abbandona i suoi tentativi grafici per affidarsi quasi totalmente alle parole. Il linguaggio, dopo aver contaminato il disegno, finisce per sopraffarlo completamente”.
Scritto dallo psicologo Karl Bűhler nel 1930
Citazioni tratte da: Betty Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello., Longanesi & C, 1996
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/minina007/140529526/)
Guardiamo sempre, scrutiamo, fissiamo, cerchiamo... ma raramente vediamo. L’arte inizia proprio lì: da uno sguardo diverso dell’artista. E, mi verrebbe da dire, è il punto dove inizia anche la vita, vissuta consapevolmente. Smettendo di cercare quello che pensiamo di volere, per indagare cosa davvero ha da proporci la vita.
Qualche testimonianza diretta dalle parole di artisti:
James Lord ha dato la seguente descrizione della reazione dell’artista Alberto Giacometti allo spazio vuoto: «Si rimise a dipingere, ma dopo qualche minuto si voltò a guardare nel punto dove fino a poco prima c’era stato il busto, come se volesse riesaminarlo, ed esclamò: “Oh, non c’è più!” Gli ricordai che Diego lo aveva portato via, ma egli disse: “Sì, ma io credevo che ci fosse. Ho guardato e d’un tratto ho visto il vuoto. Ho visto il vuoto. E’ la prima volta che mi capita nella vita».
James Lord, A Giacometti Portrait
Conversando con l’amico André Marchand, il pittore francese Hénri Matisse descrisse in questo modo il passaggio da un tipo di percezione ad un altro: «L’uomo, sapete, ha soltanto un occhio che vede e registra tutto, un occhio che è come una straordinaria macchina fotografica che riprende immagini minute, molto nitide, minuscole; e con quell’immagine, l’uomo dice a se stesso, e per un momento è tranquillo. Poi, sovrapponendosi gradualmente all’immagine, compare, senza che lui se ne accorga, un altro occhio, che riprende un’immagine completamente diversa. “E a questo punto il nostro uomo non vede più chiaramente; ha inizio una lotta tra il primo occhio e il secondo, una lotta feroce, e alla fine il secondo occhio ha la meglio, assume il controllo e così la lotta finisce. Ora che ha in mano la situazione, il secondo occhio può continuare il suo lavoro da solo ed elaborare la propria immagine secondo le leggi della visione interiore. Questo occhio speciale si trova qui” disse Matisse, indicando il cervello.
J. Flam, Matisse on Art
“L’artista è il confidente della natura. I fiori dialogano con lui per mezzo dell’aggraziato curvarsi dei loro steli e del loro dischiudersi in armoniose sfumature di colori. Ogni fiore ha per lui una parola cordiale che la natura gli rivolge”.
Auguste Rodin
“E’ per vedere più chiaramente, per vedere ancor più in profondo, ancor più intensamente, ed essere quindi pienamente consapevole e vivo, che disegno ciò che i cinesi chiamano ‘Le diecimila cose’ che ci circondano. Il disegno è la disciplina per mezzo della quale riscopro costantemente il mondo. Ho imparato che le cose che non ho disegnato non le ho mai viste veramente, e che, quando mi metto a disegnare una cosa qualsiasi, essa mi si rivela straordinaria, un puro miracolo”.
Frederick Franck, The Zen of Seeing
“Quando il bambino comincia a disegnare qualcosa di più che semplici scarabocchi – cioè all’età di tre o quattro anni – la sua memoria e il suo procedimento grafico sono già dominati da un insieme consolidato di conoscenze concettuali formulate in termini di linguaggio… Un disegno è così un resoconto grafico di un processo essenzialmente verbale. Man mano che la sua formazione verbale diventa dominante, il bambino abbandona i suoi tentativi grafici per affidarsi quasi totalmente alle parole. Il linguaggio, dopo aver contaminato il disegno, finisce per sopraffarlo completamente”.
Scritto dallo psicologo Karl Bűhler nel 1930
Citazioni tratte da: Betty Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello., Longanesi & C, 1996
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/minina007/140529526/)
Il valore dei pensieri positivi.
Siamo soliti proteggere le nostre case dai ladri. Eppure non prestiamo alcuna attenzione alla casa delle nostre idee e ai pensieri che ospitiamo nella nostra mente. Sembra siamo ignari o indifferenti ad una realtà che ci si palesa ogni giorno: la qualità dei pensieri fa la qualità della nostra vita.
Pensare bene significa pensare costruttivamente. Sono costruttivi i pensieri che suggeriscono energia, salute, amore, progresso, felicità, abbondanza, pace, spiritualità, eccetera. Chi ha la tendenza a guardare e a pensare al lato positivo delle cose, deve accrescere sempre più una felice disposizione d’animo, perché attira a sé quello che guarda e quello che pensa.
I pensieri costruttivi sono i nostri migliori amici. Fanno progredire più rapidamente perché attirano verso la metà di ogni persona che è – o dovrebbe essere -la felicità. Danno serenità, liberano risorse cognitive, creano un circolo virtuoso.
Pensare bene significa pensare costruttivamente. Sono costruttivi i pensieri che suggeriscono energia, salute, amore, progresso, felicità, abbondanza, pace, spiritualità, eccetera. Chi ha la tendenza a guardare e a pensare al lato positivo delle cose, deve accrescere sempre più una felice disposizione d’animo, perché attira a sé quello che guarda e quello che pensa.
I pensieri costruttivi sono i nostri migliori amici. Fanno progredire più rapidamente perché attirano verso la metà di ogni persona che è – o dovrebbe essere -la felicità. Danno serenità, liberano risorse cognitive, creano un circolo virtuoso.
martedì 4 novembre 2008
Meglio essere ottimisti?
Gli ottimisti, ci dicono gli scienziati (soprattutto psicologi cognitivi e psicologi della salute), sopravvalutano la realtà. Non solo: tendono ad essere più approssimativi, meno precisi quando vengono interrogati sulle probabilità di eventi negativi, offrono valutazioni ottimistiche che sono per lo più irrealistiche. I pessimisti, per contro, sono aquile abili e matematicamente molto forti: accurati nel valutare i rischi di ogni genere di disastro che potrebbe capitare loro, dagli incidenti aerei alla probabilità di essere investiti da una macchina. Assolutamente consapevoli di tutti i rischi-pericoli-problemi, i pessimisti conoscono la realtà molto meglio degli ottimisti, che loro ritengono – a ragione – futili, leggeri e sconsiderati.
La domanda che si sono posti gli scienziati è quella che ognuno di noi dovrebbe porsi: val la pena conoscere bene la realtà? Il confronto realistico con la realtà – che gli psicologi identificano come indice di salute mentale – è davvero auspicabile, ci fa vivere meglio?
Il meglio, ovviamente, è una valutazione di carattere profondamente soggettivo. Gli scienziati per ora si sono concentrati sul quanto e risulta abbastanza chiaro che essere ottimisti, nella vita, aiuta a vivere di più. Il pessimismo è dannoso per la salute. Gli individui pessimisti affetti da malattie cardiache hanno maggiori probabilità di morire a causa di tali disturbi rispetto agli ottimisti con uguali patologie e sono più predisposti a contrarre una patologia tumorale. In uno studio condotto negli anni 40 su un campione di studenti di medicina di Harvard, un alto livello di ottimismo all’età di vent’anni faceva prevedere un ottimo stato di salute all’età di sessantacinque. Queste ricerche sono state replicate negli anni con risultati analoghi.
Al di là del regalarci una vita potenzialmente più lunga, inoltre, l’ottimismo ci dà strumenti oggettivi e misurabili durante il suo corso. Ce lo dimostra, in maniera inequivocabile, un esperimento condotto sui topi. Negli anni 80 il professor Morris, brillante ricercatore inglese diventano molto celebre proprio per questo studio, suddivise casualmente un campione di topolini bianchi in due gruppi: uno ad uno i topini vennero immersi in una vaschetta d’acqua contenente un isolotto (gruppo 1) oppure senza isolotto (gruppo 2). L'isola - laddove presente - doveva consentire ai topini di starsene tranquilli e rifocillarsi evitando di nuotare per un po'.
In una seconda fase dello studio, con gli stessi soggetti sperimentali e la stessa vaschetta, venne introdotta una modifica: l’acqua della piscina fu resa opaca con del latte. I topolini del gruppo 1, memori dell'esistenza di un'isola, pur non vedendola nuotarono in cerca della piccola oasi di pace finché non la trovarono. Quelli del gruppo 2 (che non avevano sperimentato la possibile esistenza di un'isola) nuotarono a caso senza alcuna ricerca.
Infine, nella terza fase dell’esperimento, tutti i topi – uno ad uno – furono fatti nuotare nella vasca privata dell’isolotto e vennero estratti quando erano allo stremo delle forze. Morris scoprì (tra le altre cose) che i topini che cercavano l’isolotto avevano resistito il doppio di quelli che non cercavano l’isola.
Se qualcuno avrà storto il naso sull’esperimento (cosa c’entrano i topi?), il suo valore in questo caso è dato proprio dal fatto che in gioco ci fossero esserini così “semplici”. Persino un topo quando si aspetta qualcosa, resiste il doppio di chi non si aspetta nulla. Avere un’isola (quella del tesoro o quella che non c’è) aiuta a lottare molto di più, speranzosi e fiduciosi, con un obiettivo chiaro in testa.
In conclusione, quindi, può essere che il pessimista abbia ragione e l’ottimista sia solo un ingenuo che distorce la realtà. Ma, di fatto, questa distorsione aiuta a vivere di più, meglio e a cambiare la realtà per renderla più vicina alle nostre aspettative. Il pessimista, per sua natura, non fa che incrementare la probabilità che le cose possano andar male, visto che – alla luce della sua brillante lungimiranza – sa quante poche probabilità ci sono che possa anche andar bene.
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/juliedermansky/258863950/)
La domanda che si sono posti gli scienziati è quella che ognuno di noi dovrebbe porsi: val la pena conoscere bene la realtà? Il confronto realistico con la realtà – che gli psicologi identificano come indice di salute mentale – è davvero auspicabile, ci fa vivere meglio?
Il meglio, ovviamente, è una valutazione di carattere profondamente soggettivo. Gli scienziati per ora si sono concentrati sul quanto e risulta abbastanza chiaro che essere ottimisti, nella vita, aiuta a vivere di più. Il pessimismo è dannoso per la salute. Gli individui pessimisti affetti da malattie cardiache hanno maggiori probabilità di morire a causa di tali disturbi rispetto agli ottimisti con uguali patologie e sono più predisposti a contrarre una patologia tumorale. In uno studio condotto negli anni 40 su un campione di studenti di medicina di Harvard, un alto livello di ottimismo all’età di vent’anni faceva prevedere un ottimo stato di salute all’età di sessantacinque. Queste ricerche sono state replicate negli anni con risultati analoghi.
Al di là del regalarci una vita potenzialmente più lunga, inoltre, l’ottimismo ci dà strumenti oggettivi e misurabili durante il suo corso. Ce lo dimostra, in maniera inequivocabile, un esperimento condotto sui topi. Negli anni 80 il professor Morris, brillante ricercatore inglese diventano molto celebre proprio per questo studio, suddivise casualmente un campione di topolini bianchi in due gruppi: uno ad uno i topini vennero immersi in una vaschetta d’acqua contenente un isolotto (gruppo 1) oppure senza isolotto (gruppo 2). L'isola - laddove presente - doveva consentire ai topini di starsene tranquilli e rifocillarsi evitando di nuotare per un po'.
In una seconda fase dello studio, con gli stessi soggetti sperimentali e la stessa vaschetta, venne introdotta una modifica: l’acqua della piscina fu resa opaca con del latte. I topolini del gruppo 1, memori dell'esistenza di un'isola, pur non vedendola nuotarono in cerca della piccola oasi di pace finché non la trovarono. Quelli del gruppo 2 (che non avevano sperimentato la possibile esistenza di un'isola) nuotarono a caso senza alcuna ricerca.
Infine, nella terza fase dell’esperimento, tutti i topi – uno ad uno – furono fatti nuotare nella vasca privata dell’isolotto e vennero estratti quando erano allo stremo delle forze. Morris scoprì (tra le altre cose) che i topini che cercavano l’isolotto avevano resistito il doppio di quelli che non cercavano l’isola.
Se qualcuno avrà storto il naso sull’esperimento (cosa c’entrano i topi?), il suo valore in questo caso è dato proprio dal fatto che in gioco ci fossero esserini così “semplici”. Persino un topo quando si aspetta qualcosa, resiste il doppio di chi non si aspetta nulla. Avere un’isola (quella del tesoro o quella che non c’è) aiuta a lottare molto di più, speranzosi e fiduciosi, con un obiettivo chiaro in testa.
In conclusione, quindi, può essere che il pessimista abbia ragione e l’ottimista sia solo un ingenuo che distorce la realtà. Ma, di fatto, questa distorsione aiuta a vivere di più, meglio e a cambiare la realtà per renderla più vicina alle nostre aspettative. Il pessimista, per sua natura, non fa che incrementare la probabilità che le cose possano andar male, visto che – alla luce della sua brillante lungimiranza – sa quante poche probabilità ci sono che possa anche andar bene.
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/juliedermansky/258863950/)
Nodi. Eleganti orditure del pensiero umano.
R.D. Laing è stato un geniale uomo di scienza (difficile limitare ad una disciplina i suoi versatili interessi: logica, psicologia, psichiatria,...). Ha studiato a lungo quei nodi, grovigli, sconnessioni, impasses, circoli viziosi e vincoli che la mente umana crea e nei quali rimane, spesso, impotentemente ingarbugliata. Anche se il tempo passa, anche se il contesto muta, nulla cambia se la nostra mente rimane uguale.
Fonte: R.D. Laing, Nodi,Einaudi, Nuovo Politecnico 65
Un tempo, quando Giovanni era piccolo,
voleva star tutto il tempo con la sua mamma
e aveva paura che se andasse via
più tardi, quando fu un po’ cresciuto,
voleva starsene via da sua mamma
e aveva paura che
lei lo volesse avere con sé tutto il tempo
quando fu grande s’innamorò di Maria
e voleva stare con lei tutto il tempo
e aveva paura che se ne andasse via
quando fu un po’ più in là con gli anni,
non voleva stare con Maria tutto il tempo
aveva paura
che volesse stare con lui tutto il tempo, e
che avesse paura
che lui non volesse stare con lei tutto il tempo
Giovanni fa paura a Maria minacciandola di lasciarla
perché ha paura che lei lo lasci.
Fonte: R.D. Laing, Nodi,Einaudi, Nuovo Politecnico 65
L'errore più grande? Rinunciare
Il giorno più bello? Oggi.
L’ostacolo più grande? La paura.
La cosa più facile? Sbagliarsi.
L’errore più grande? Rinunciare.
La radice di tutti i mali? L’egoismo.
La distrazione migliore? Il lavoro.
La sconfitta peggiore? Lo scoraggiamento.
I migliori professionisti? I bambini.
Il primo bisogno? Comunicare.
La felicità più grande? Essere utili agli altri.
Il mistero più grande? La morte.
Il difetto peggiore? Il malumore.
La persona più pericolosa? Quella che mente.
Il sentimento più brutto? Il rancore.
Il regalo più bello? Il perdono.
Quello indispensabile? La famiglia.
La rotta migliore? La via giusta.
La sensazione più piacevole? La pace interiore.
L’accoglienza migliore? Il sorriso.
La miglior medicina? L’ottimismo.
La soddisfazione più grande? Il dovere compiuto.
La forza più grande? La fede.
Le persone più necessarie? I sacerdoti.
La cosa più bella del mondo? L’amore.
Da: Madre Teresa, Nel cuore del mondo, Rizzoli
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/yilud/145108152/)
La famiglia è un fiore delicato.
"Il fiore è un meraviglioso pezzetto di vita; anche se noi esseri umani riusciamo a piantarne il seme e a favorirne il processo di crescita, sinora non siamo riusciti a creare un fiore vivente. Possiamo incrociare, trapiantare, coltivare e innestare i fiori, ma non possiamo creare un solo fiore dal nulla, a meno che sia privo di vita, sia fatto di carta o di plastica. Un’altra caratteristica di fiori e piante è che crescono meglio nel loro ambiente originario: se anche riescono a crescere in un altro ambiente, occorre da parte di chi li coltiva un’assistenza assai maggiore perché un fiore possa avere la stessa vigoria e la stessa possibilità di realizzare la sua piena potenzialità.
Ma può avvenire che persino trascorrendo l’intero ciclo vitale nel proprio ambiente naturale il fiore non cresca regolarmente e abbia pochi germogli. A volte questi fiori selvatici sono talmente compressi da soffocarsi a vicenda, ammalarsi e morire. I fiori raggiungono il punto di massima crescita quando sono alimentati in modo appropriato nel loro habitat naturale e hanno spazio a sufficienza. Noi siamo convinti che il processo che abbiamo descritto per i fiori vale anche, sotto molto aspetti, per gli esseri umani e anche per la famiglia."
Da: Richard Bandler, John Grinder, La struttura della magia. Astrolabio, 1975
Ma può avvenire che persino trascorrendo l’intero ciclo vitale nel proprio ambiente naturale il fiore non cresca regolarmente e abbia pochi germogli. A volte questi fiori selvatici sono talmente compressi da soffocarsi a vicenda, ammalarsi e morire. I fiori raggiungono il punto di massima crescita quando sono alimentati in modo appropriato nel loro habitat naturale e hanno spazio a sufficienza. Noi siamo convinti che il processo che abbiamo descritto per i fiori vale anche, sotto molto aspetti, per gli esseri umani e anche per la famiglia."
Da: Richard Bandler, John Grinder, La struttura della magia. Astrolabio, 1975
La mia vita è stata piena di terribili disgrazie. La maggior parte delle quali...
Chi mi legge da un po' avrà capito la mia filosofia: la vita è quello che è, talvolta un paradiso talaltra un inferno, raramente possiamo determinarne il corso. Però in quello che possiamo davvero determinare, cioè il nostro modo di viverla, siamo spesso dei cuccioli disarmati e disarmanti. Per dirla in altre parole: siamo dei maestri nel rovinarcela, la vita, e riusciamo a farlo in una quantità di modi diversi estremamente creativa. In questo, non siamo quasi mai pigri: ci impegnamo seriamente e dedichiamo una mole considerevole di risorse cognitive e di tempo a questa attività.
Proviamo a pensare, ad esempio, alla nostra grande capacità di creare mostri e disastri. Montaigne sempre arguto soleva dire: “La mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali non si è mai verificata”. Focalizzazione ed immaginazione sono due importanti risorse che, lasciate alla guida della nostra vita senza controllo, possono giocarci brutti scherzi e portarci alla rovina.
Mi spiego meglio. Pensare “al peggio” è – di base – un istinto naturale utile ed adattativo: ci aiuta ad attrezzarci e a prepararci ad un’ipotesi di occorrenza rischiosa, in modo da gestirla al meglio. Quando però questo pensiero (chiamiamolo, in termini vagamente new age, negativo) si insinua nel nostro cervello e ne diventa il padrone, allora dobbiamo fermarci e riflettere. Non abbiamo la sfera di cristallo. Le cose potrebbero andare sia bene, che male. Non possono andare sempre e solo male. Il buon senso ce lo dice, e anche la vita, la statistica, la storia.
Se il nostro cervello riesce a rimandarci sempre e solo immagini di sciagure e il peggio di quello che potrebbe capitare, siamo caduti nel circolo vizioso della focalizzazione. E’ il meccanismo che induce a rappresentarsi in modo esplicito solo un sottoinsieme degli stati del mondo: solo una parte quindi delle numerose, forse infinite, possibilità. Senza controllo, possiamo arrivare all’assurdo – purtroppo tutt’altro che raro – in cui siamo infelici anche quando avremmo tutte le condizioni per essere felici (perché non osserviamo la realtà, ma siamo sempre lì a cullare le nostre paure e le nostre aspettative di disastro).
Il grande psicologo americano William James (fratello dello scrittore Henry, splendida famiglia quella!) scrisse a questo proposito: “Assistiamo al paradosso di un uomo che si vergogna da morire perché è il secondo pugile o vogatore del mondo. Che sia più veloce di tutti gli altri esseri al mondo tranne uno, non basta”. Pensiamoci.
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/magomerlano/749400720/
Proviamo a pensare, ad esempio, alla nostra grande capacità di creare mostri e disastri. Montaigne sempre arguto soleva dire: “La mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali non si è mai verificata”. Focalizzazione ed immaginazione sono due importanti risorse che, lasciate alla guida della nostra vita senza controllo, possono giocarci brutti scherzi e portarci alla rovina.
Mi spiego meglio. Pensare “al peggio” è – di base – un istinto naturale utile ed adattativo: ci aiuta ad attrezzarci e a prepararci ad un’ipotesi di occorrenza rischiosa, in modo da gestirla al meglio. Quando però questo pensiero (chiamiamolo, in termini vagamente new age, negativo) si insinua nel nostro cervello e ne diventa il padrone, allora dobbiamo fermarci e riflettere. Non abbiamo la sfera di cristallo. Le cose potrebbero andare sia bene, che male. Non possono andare sempre e solo male. Il buon senso ce lo dice, e anche la vita, la statistica, la storia.
Se il nostro cervello riesce a rimandarci sempre e solo immagini di sciagure e il peggio di quello che potrebbe capitare, siamo caduti nel circolo vizioso della focalizzazione. E’ il meccanismo che induce a rappresentarsi in modo esplicito solo un sottoinsieme degli stati del mondo: solo una parte quindi delle numerose, forse infinite, possibilità. Senza controllo, possiamo arrivare all’assurdo – purtroppo tutt’altro che raro – in cui siamo infelici anche quando avremmo tutte le condizioni per essere felici (perché non osserviamo la realtà, ma siamo sempre lì a cullare le nostre paure e le nostre aspettative di disastro).
Il grande psicologo americano William James (fratello dello scrittore Henry, splendida famiglia quella!) scrisse a questo proposito: “Assistiamo al paradosso di un uomo che si vergogna da morire perché è il secondo pugile o vogatore del mondo. Che sia più veloce di tutti gli altri esseri al mondo tranne uno, non basta”. Pensiamoci.
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/magomerlano/749400720/
Dobbiamo appropriarci vastamente dell'esistenza.
Dobbiamo appropriarci vastamente dell’esistenza, in ogni modo. Tutto, anche l’inusitato, deve esserci possibile. Questo è in fondo l’unico ardimento che ci viene richiesto: avere coraggio per ciò che è più strano, più inspiegabile. R.M. Rilke
Il coraggio è un tema di cui si discute raramente, sembra una rimembranza di tempi lontani in cui era un valore tra i più stimati, insieme all'onore e alla fedeltà. Eppure il coraggio è qualcosa che serve, nella vita di tutti, ogni giorno. Il coraggio di andare avanti, di accettare i propri sbagli, di cambiare quello che non funziona, di sfidare la sorte. Il coraggio di essere se stessi.
Sembra che, tramontato il primato valoriale del coraggio, anche la nostra vita sia cambiata. Rilke ci parla del coraggio di investigare ciò che è più strano ed inspiegabile, di andare oltre i confini del noto per esplorare nuovi mondi, dentro e fuori di noi. Nella vita caotica e frenetica che conduciamo tutti noi, ogni giorno, mi chiedo chi si ricorda di farlo. Alzarsi la mattina alle sette o anche prima, salire su mezzi sempre più pieni, correre in ufficio, mangiare un panino al volo, ritornare al lavoro cercando di ignorare la sonnolenza e tentando di accelerare con il pensiero la corsa dell’orologio. E poi di nuovo mezzi, casa, mangiare, dormire... per fortuna non è sempre così, né per tutti. Ma quando, in questo modo di vivere così routinario, ci ricordiamo che la vita potrebbe essere qualcosa di diverso. In fondo viviamo in un mondo privilegiato, abbiamo la possibilità di scegliere. Ma scegliere richiede coraggio. Ed è quello che, forse, ci è stato tolto o ci siamo fatti togliere, orpello inutile in tempi in cui è meglio correre, senza chiedersi perché o per come.
Ma io condivido il pensiero di Rilke. L’unico ardimento che ci viene richiesto è di avere ardimento. Come dire: l’unico modo di vivere è vivere. Ma farlo davvero.
Storia di storie.
"Raccontare storie è educare, elevare: non è una pratica oziosa. Se ci sono traffici di storie, per cui due persone si scambiano storie come doni reciproci, è perché ormai si conoscono bene, si sentono affini. E così deve essere. Sebbene alcuni usino le storie come puro intrattenimento, esse sono, nel senso più antico, un’arte curativa. Alcuni a quest’arte sono chiamati, i migliori, a mio avviso, sono coloro che giacquero con la storia e ne scoprirono tutte le parti che si adattano l’un l’altra dentro di sé e in profondità. Occupandoci di storie, maneggiamo energia archetipa, che molto ha in comune con l’elettricità. Può animare e illuminare, ma nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, come qualsiasi medicina, può avere effetti indesiderati. Talvolta le persone che collezionano storie non si rendono conto di che cosa chiedono quando chiedono una storia di questa dimensione. L’archetipo ci cambia; se non c’è cambiamento, non c’è stato vero contatto con l’archetipo.
(…) Invito le persone a tirare fuori la loro storia, perché graffiarsi le mani, dormire sulla terra fredda, brancolare nel buio, e tutte le avventure che capitano, valgono tutto. Su ogni storia deve cadere qualche goccia di sangue, se dev’essere di medicamento.Spero che lascerete che le storie vi accadano, e che le elaborerete, le innaffierete con il vostro sangue e le vostre lacrime e le vostre risa finché non fioriranno, finché voi medesime non fiorirete. Allora vedrete che medicine sono, e dove e quando somministrarle. Questo è il lavoro. L’unico lavoro".
C’era una volta una creatura alla quale il pessimo carattere aveva provocato difficoltà enormi e la perdita di buoni amici. Si avvicinò a un vecchio saggio coperto di stracci e gli domandò: “come potrò riuscire a tenere sotto controllo questo demone della rabbia?” Il vecchio gli consigliò di raggiungere una lontana oasi riarsa nel deserto, di sedere tra gli alberi secchi e di raccogliere l’acqua salmastra per i viaggiatori che vi si fossero avventurati.
E l’uomo, nel tentativo di vincere la sua collera, andò nel deserto fino al posto degli alberi secchi. Per mesi, avvolto in mantelli e nel burnus per proteggersi dalla sabbia, raccolse l’acqua salmastra e la offrì a tutti quelli che passavano. Trascorsero gli anni, e non soffriva più di accessi di collera.
Un giorno arrivò all’oasi morta uno scuro cavaliere, e lanciò un’occhiata altezzosa all’uomo che gli offriva l’acqua in una ciotola. Il cavaliere disprezzò l’acqua torbida, la rifiutò, e riprese a cavalcare.
L’uomo che aveva offerto l’acqua andò subito in collera, tanto da esserne accecato, e afferrò il cavaliere, lo tirò giù dal suo cammello e lo uccise. Immediatamente, con dolore comprese di essere stato consumato dalla collera. Ed ecco che cosa accadde poi.
D’improvviso un altro cavaliere arrivò al galoppo. Guardò in volto il morto ed esclamò: “Allah sia ringraziato! Hai ucciso l’uomo che stava andando ad assassinare il re!” E in quel momento l’acqua torbida dell’oasi si fece limpida e dolce e gli alberi secchi dell’oasi diventarono verdi e si ricoprirono di gemme.
Da: Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna selvaggia, Frassinelli, 1993
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/lozingaro/2273236459/)
La mente è più grande del cielo.
La mente – è più grande del cielo –
Perché – se li metti fianco a fianco –
L’una contiene l’altro
Facilmente – e te – anche –
La mente è più profonda del mare –
Perché – se li tieni – blu contro blu –
L’una assorbirà l’altro
Come una spugna – un secchio –
La mente ha giusto il peso di Dio –
Perché – alzali – libbra su libbra –
Ed essi differiranno – semmai –
Come suono da sillaba.
Emily Dickinson, 1862
Foto: courtesy of Flickr (http://www.flickr.com/photos/valerius25/463968859/)
Il cambiamento, questo sconosciuto.
Nel suo libro In Patagonia, Bruce Chatwin ci regala un’immagine del cambiamento estremamente efficace. Racconta infatti che, le popolazioni locali, per descrivere il cambiamento fanno riferimento al momento in cui il granchio cambia guscio: affinché si formi quello nuovo, l’animale deve perdere il vecchio e rimane per un certo periodo completamente vulnerabile.
E’ quello stadio che l’antropologo tedesco (naturalizzato francese) Arnold van Gennep ha definito liminare. Nel suo libro Riti di passaggio, pubblicato nel 1909 (il cambiamento non è tema di interesse solo per i nostri tempi ;-), van Gennep parla del cambiamento come stadio della vita caratterizzato da tre momenti: una fase preliminare, in cui il cambiamento non ha ancora avuto corso ma si sta preparando; la fase liminare, in cui il cambiamento si attiva; la fase postliminare in cui il cambiamento è avvenuto e ci si deve riadeguare ad una nuova normalità, rientrando negli “schemi” sociali.
Ogni fase ha una sua specificità, quella centrale è la più delicata. Per esprimerci usando un gergo proprio della psicologia popolare, è il momento della vita in cui non si è “né carne, né pesce”. E’quanto sperimentano gli adolescenti, per fare un esempio concreto, che non sono più ragazzi (e ai quali i genitori e gli insegnanti richiedono atteggiamenti e comportamenti consoni a giovani maturi raziocinanti e responsabili), ma di fatto non sono ancora adulti (e quindi sono assoggettati a regole spesso non discutibili, al “finché vivrai sotto questo tetto…”, ad una libertà talmente condizionata e controllata da sembrare una prigione: i bambini ne hanno di più!). Altro momento della vita oggi fortemente conflittuale è quello del pensionamento: persone ancora giovani e capaci di grande produttività che si sentono rifiutate dal mondo del lavoro (spesso in realtà ne son felici, anche comprensibilmente) e sono quindi buttate senza cautela nel grande calderone dell’anzianità, che nello stereotipo comune è fatta ancora di pannoloni, bava alla bocca, dipendenza completa e smemoratezza, ma in realtà (soprattutto nella sua prima parte) è fatta di energia-tempo libero-desiderio di appartenenza talora incapaci di trovare applicazione.
La paura che spesso accompagna il cambiamento e talora ci attanaglia impedendoci di muoverci, è certo legata a doppio filo alla vulnerabilità di questa fase di liminarità. Tutto può accadere, nemmeno la nostra identità è certa, non vi sono sicurezze e ci vuole molta pazienza, equilibrio psicologico ed autoironia per capire che tutto cambia perché nulla cambi.
Van Gennep aveva puntato la sua attenzione sull’importanza dei riti di passaggio delle società non civilizzate da lui analizzate. Si trattava di rituali che – socialmente definiti e condivisi – aiutavano le persone nei momenti di cambiamento presentando “cornici” di stabilità formale, azioni e cerimonie collettive per impedire al singolo individuo di perdersi, sottolineando come il cambiamento è proprio di certi momenti della vita, solo un ponte da attraversare, ben rodato dai passi di tutti quelli che l’hanno già solcato. Così la nascita, l’iniziazione sessuale, sposarsi diventano in quelle comunità momenti da sancire e festeggiare uniti. Non momenti di divisione, bensì di aggregazione e di riaffermazione di appartenenza. Le società cosiddette primitive lo erano davvero tanto?
E’ quello stadio che l’antropologo tedesco (naturalizzato francese) Arnold van Gennep ha definito liminare. Nel suo libro Riti di passaggio, pubblicato nel 1909 (il cambiamento non è tema di interesse solo per i nostri tempi ;-), van Gennep parla del cambiamento come stadio della vita caratterizzato da tre momenti: una fase preliminare, in cui il cambiamento non ha ancora avuto corso ma si sta preparando; la fase liminare, in cui il cambiamento si attiva; la fase postliminare in cui il cambiamento è avvenuto e ci si deve riadeguare ad una nuova normalità, rientrando negli “schemi” sociali.
Ogni fase ha una sua specificità, quella centrale è la più delicata. Per esprimerci usando un gergo proprio della psicologia popolare, è il momento della vita in cui non si è “né carne, né pesce”. E’quanto sperimentano gli adolescenti, per fare un esempio concreto, che non sono più ragazzi (e ai quali i genitori e gli insegnanti richiedono atteggiamenti e comportamenti consoni a giovani maturi raziocinanti e responsabili), ma di fatto non sono ancora adulti (e quindi sono assoggettati a regole spesso non discutibili, al “finché vivrai sotto questo tetto…”, ad una libertà talmente condizionata e controllata da sembrare una prigione: i bambini ne hanno di più!). Altro momento della vita oggi fortemente conflittuale è quello del pensionamento: persone ancora giovani e capaci di grande produttività che si sentono rifiutate dal mondo del lavoro (spesso in realtà ne son felici, anche comprensibilmente) e sono quindi buttate senza cautela nel grande calderone dell’anzianità, che nello stereotipo comune è fatta ancora di pannoloni, bava alla bocca, dipendenza completa e smemoratezza, ma in realtà (soprattutto nella sua prima parte) è fatta di energia-tempo libero-desiderio di appartenenza talora incapaci di trovare applicazione.
La paura che spesso accompagna il cambiamento e talora ci attanaglia impedendoci di muoverci, è certo legata a doppio filo alla vulnerabilità di questa fase di liminarità. Tutto può accadere, nemmeno la nostra identità è certa, non vi sono sicurezze e ci vuole molta pazienza, equilibrio psicologico ed autoironia per capire che tutto cambia perché nulla cambi.
Van Gennep aveva puntato la sua attenzione sull’importanza dei riti di passaggio delle società non civilizzate da lui analizzate. Si trattava di rituali che – socialmente definiti e condivisi – aiutavano le persone nei momenti di cambiamento presentando “cornici” di stabilità formale, azioni e cerimonie collettive per impedire al singolo individuo di perdersi, sottolineando come il cambiamento è proprio di certi momenti della vita, solo un ponte da attraversare, ben rodato dai passi di tutti quelli che l’hanno già solcato. Così la nascita, l’iniziazione sessuale, sposarsi diventano in quelle comunità momenti da sancire e festeggiare uniti. Non momenti di divisione, bensì di aggregazione e di riaffermazione di appartenenza. Le società cosiddette primitive lo erano davvero tanto?
Apri la tua stanza del tesoro.
Dakju fece visita al maestro Baso in Cina.
Baso domandò: “Che cosa cerchi?”
L’illuminazione” rispose Daiju.
Tu hai la tua stanza del tesoro. Perché vai in giro a cercare?” domandò Baso
Daiju domandò: “Dov’è la mia stanza del tesoro?”
Baso rispose: “Quello che stai domandando è la tua stanza del tesoro”.
Daiju fu illuminato. Da quel momento, esortava sempre i suoi amici:
Aprite la vostra stanza del tesoro e usate quei tesori.
Da: 101 storie zen. A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi, 1973
Baso domandò: “Che cosa cerchi?”
L’illuminazione” rispose Daiju.
Tu hai la tua stanza del tesoro. Perché vai in giro a cercare?” domandò Baso
Daiju domandò: “Dov’è la mia stanza del tesoro?”
Baso rispose: “Quello che stai domandando è la tua stanza del tesoro”.
Daiju fu illuminato. Da quel momento, esortava sempre i suoi amici:
Aprite la vostra stanza del tesoro e usate quei tesori.
Da: 101 storie zen. A cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Adelphi, 1973
I miti ci insegnano che...
Una breve lezione su miti, fiabe e sul loro significato (da un punto di vista filogenetico ed ontogenetico) da colui che è considerato, a ragione, il più profondo conoscitore dei miti del mondo, Joseph Campbell. Il brano che riportiamo è tratto dal libro Il potere del mito (pubblicato in Italia da Guanda), un'intervista in cui Campbell parla di quanto ha imparato sui miti in oltre cinquant'anni di studio.
[…] I miti non sono i sogni di un altro popolo, sono i sogni del mondo, sogni archetipici che riflettono i grandi problemi dell’uomo. Servono per riconoscere i momenti di passaggio. È il mito che dice come rispondere a certe crisi, alla delusione, alla felicità, al fallimento o al successo. I miti mi dicono dove mi trovo.
[…] Esiste una sequenza tipica di azioni eroiche riconoscibile nelle storie di tutto il mondo e in periodi storici diversi. Potremmo dire che la vita dell’eroe mitico è un archetipo che si ripete in molti paesi e popoli. Di solito, l’eroe leggendario è colui che fonda qualche cosa: il fondatore di una nuova epoca, di una nuova religione, di una nuova città, di un nuovo modo di vita. Per trovare qualcosa di nuovo, si deve abbandonare il vecchio e andare alla ricerca dell’idea seminale, un’idea germinale che avrà il potere di far nascere il nuovo.
I fondatori di tutte le religioni hanno intrapreso questa ricerca. Buddha si ritirò in solitudine e quindi rimase a sedere sotto l’albero della conoscenza immortale, dove ricevette l’illuminazione che ha rischiarato l’Asia intera per 2500 anni. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni Battista, Gesù andò nel deserto per quaranta giorni: e fu da quel deserto che egli tornò con il suo messaggio. Mosé salì in cima alla montagna per poi discendere con le tavole della legge. Poi abbiamo l’eroe fondatore di una nuova città: quasi tutte le antiche città greche furono fondate da eroi che partirono alla “ricerca” e vissero avventure sorprendenti che li portarono a fondare una città. Possiamo anche dire che il fondatore di una vita, la tua o la mia, se la viviamo come nostra, invece di imitare quella di qualcun altro, proviene comunque dalla ricerca.
[…] Le fiabe servono a divertire e molte sono a lieto fine, ma prima di concludersi presentano tipici motivi mitologici: il protagonista si trova in una situazione davvero difficile e sente una voce o avverte una presenza che gli viene in aiuto. Le fiabe sono destinate ai bambini. Molto spesso trattano di una ragazza che non ha voglia di diventare donna, che di fronte a questo momento di trasformazione si fa recalcitrante. Così va a dormire, fino all’arrivo di un principe che, superati mille ostacoli, le dà motivo di credere che dopotutto diventare donna non è poi così male. Molte favole dei fratelli Grimm presentano una ragazza che non vuole più crescere.
I rituali delle cerimonie primitive di iniziazione erano tutti fondati nel mito e riguardavano l’uccisione dell’io infantile e la nascita dell’adulto, sia nel caso di un ragazzo, sia in quello di una ragazza. La cosa è più difficile per il ragazzo che per la ragazza, perché nel caso della ragazza è la vita a prendere il sopravvento. La ragazza diventa una donna, che lo voglio o no, mentre il ragazzo deve voler diventare uomo. Con l’arrivo delle mestruazioni la ragazza diventa donna. L’altro passaggio di cui deve prendere coscienza è la gravidanza, la maternità. Il ragazzo deve per prima cosa recidere i legami con la madre e trovare in se stesso l’energia per crescere. Questo è ciò che dice il mito: “Giovane, vai alla ricerca di tuo padre”. Nell’Odissea Telemaco vive con la madre. Quando compie vent’anni è Atena a dirgli: “Vai alla ricerca di tuo padre”. È il tema che attraversa tutte queste storie. Talvolta si tratta del padre mistico, altre volte invece, come nell’Odissea, del padre naturale.
La fiaba è il mito del bambino. Ogni fase della vita ha i suoi miti. Quando cresci hai bisogno di una mitologia più solida. Naturalmente tutta la storia della crocefissione, che è un’immagine fondamentale nella tradizione cristiana, parla del manifestarsi dell’eternità nell’ambito dello spazio e del tempo, dove le cose sono smembrate. Ma parla anche del passaggio, dalla dimensione spazio-temporale a quella della vita eterna. Crocifiggiamo i nostri corpi temporali e terrestri, lasciamo che siano fatti a pezzi, e attraverso questo smembramento, entriamo nella sfera spirituale che trascende tutte le pene della terra. Esiste un tipo di crocefisso noto come “Cristo trionfante” nel quale Cristo non ha il capo reclinato e gocciolante di sangue, bensì dritto e con gli occhi aperti, come se fosse arrivato volontariamente alla crocefissione. Sant’Agostino ha scritto da qualche parte che Cristo è andato alla croce come lo sposo va incontro alla sua sposa.
Da: Joseph Campbell, Il potere del mito. Guanda, 1988
[…] Esiste una sequenza tipica di azioni eroiche riconoscibile nelle storie di tutto il mondo e in periodi storici diversi. Potremmo dire che la vita dell’eroe mitico è un archetipo che si ripete in molti paesi e popoli. Di solito, l’eroe leggendario è colui che fonda qualche cosa: il fondatore di una nuova epoca, di una nuova religione, di una nuova città, di un nuovo modo di vita. Per trovare qualcosa di nuovo, si deve abbandonare il vecchio e andare alla ricerca dell’idea seminale, un’idea germinale che avrà il potere di far nascere il nuovo.
I fondatori di tutte le religioni hanno intrapreso questa ricerca. Buddha si ritirò in solitudine e quindi rimase a sedere sotto l’albero della conoscenza immortale, dove ricevette l’illuminazione che ha rischiarato l’Asia intera per 2500 anni. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni Battista, Gesù andò nel deserto per quaranta giorni: e fu da quel deserto che egli tornò con il suo messaggio. Mosé salì in cima alla montagna per poi discendere con le tavole della legge. Poi abbiamo l’eroe fondatore di una nuova città: quasi tutte le antiche città greche furono fondate da eroi che partirono alla “ricerca” e vissero avventure sorprendenti che li portarono a fondare una città. Possiamo anche dire che il fondatore di una vita, la tua o la mia, se la viviamo come nostra, invece di imitare quella di qualcun altro, proviene comunque dalla ricerca.
[…] Le fiabe servono a divertire e molte sono a lieto fine, ma prima di concludersi presentano tipici motivi mitologici: il protagonista si trova in una situazione davvero difficile e sente una voce o avverte una presenza che gli viene in aiuto. Le fiabe sono destinate ai bambini. Molto spesso trattano di una ragazza che non ha voglia di diventare donna, che di fronte a questo momento di trasformazione si fa recalcitrante. Così va a dormire, fino all’arrivo di un principe che, superati mille ostacoli, le dà motivo di credere che dopotutto diventare donna non è poi così male. Molte favole dei fratelli Grimm presentano una ragazza che non vuole più crescere.
I rituali delle cerimonie primitive di iniziazione erano tutti fondati nel mito e riguardavano l’uccisione dell’io infantile e la nascita dell’adulto, sia nel caso di un ragazzo, sia in quello di una ragazza. La cosa è più difficile per il ragazzo che per la ragazza, perché nel caso della ragazza è la vita a prendere il sopravvento. La ragazza diventa una donna, che lo voglio o no, mentre il ragazzo deve voler diventare uomo. Con l’arrivo delle mestruazioni la ragazza diventa donna. L’altro passaggio di cui deve prendere coscienza è la gravidanza, la maternità. Il ragazzo deve per prima cosa recidere i legami con la madre e trovare in se stesso l’energia per crescere. Questo è ciò che dice il mito: “Giovane, vai alla ricerca di tuo padre”. Nell’Odissea Telemaco vive con la madre. Quando compie vent’anni è Atena a dirgli: “Vai alla ricerca di tuo padre”. È il tema che attraversa tutte queste storie. Talvolta si tratta del padre mistico, altre volte invece, come nell’Odissea, del padre naturale.
La fiaba è il mito del bambino. Ogni fase della vita ha i suoi miti. Quando cresci hai bisogno di una mitologia più solida. Naturalmente tutta la storia della crocefissione, che è un’immagine fondamentale nella tradizione cristiana, parla del manifestarsi dell’eternità nell’ambito dello spazio e del tempo, dove le cose sono smembrate. Ma parla anche del passaggio, dalla dimensione spazio-temporale a quella della vita eterna. Crocifiggiamo i nostri corpi temporali e terrestri, lasciamo che siano fatti a pezzi, e attraverso questo smembramento, entriamo nella sfera spirituale che trascende tutte le pene della terra. Esiste un tipo di crocefisso noto come “Cristo trionfante” nel quale Cristo non ha il capo reclinato e gocciolante di sangue, bensì dritto e con gli occhi aperti, come se fosse arrivato volontariamente alla crocefissione. Sant’Agostino ha scritto da qualche parte che Cristo è andato alla croce come lo sposo va incontro alla sua sposa.
Da: Joseph Campbell, Il potere del mito. Guanda, 1988
Il cervello rinuncia a certe cose proprio perché si farebbe troppa fatica per averle.
"La pigrizia è il motore del progresso. E’ lo stimolo che ci spinge ad ottenere ciò che desideriamo facendo il minimo di fatica fisica; il massimo risultato col minimo sforzo è ormai una legge di economia. Si può dire che nel nostro organismo, nel nostro corpo, ci sono due entità distinte con due caratteri distinti: una è il cervello che va con la velocità del pensiero, l’altra sono i muscoli che cercano di fare meno fatica possibile. Ma siccome per ottenere qualcosa che il cervello pensa, occorre spesso mettere in funzione i muscoli, e dato che i muscoli tendono alla pigrizia, ecco che il cervello inventa un sistema per ottenere la stessa cosa facendo lavorare i muscoli il meno possibile.
Succede anche spesso che il cervello rinunci a certe cose proprio perché si farebbe troppa fatica per averle. Il massimo desiderio dell’uomo è quello di premere un pulsante e avere quello che vuole stando sdraiato su di un comodo divano. Tutte le macchine che abbiamo inventato sono fatte apposta per sostituire i muscoli: invece di camminare si sediamo nell’auto, invece di lavorare a mano un pezzo di ferro, usiamo il tornio; il principio è quello di arrivare allo scopo non solo senza fatica fisica ma anche con maggiore precisione. Tutti sanno che un pezzo di metallo tornito a macchina è più preciso di uno tornito a mano, e che un cerchio disegnato a mano è meno preciso di un cerchio fatto col compasso. Difatti, dopo l’invenzione di questi strumenti, nessuno più fa i cerchi a mano; si può affermare anzi che quando si intuisce, osservando un oggetto fatto a mano, che l’autore ha dovuto fare molta fatica per ottenerlo, si prova come un senso di pena: un buon acrobata non fa mai vedere lo sforzo.
Anche nel campo artistico un prodotto fatto con rapidità conserva tutta la vita che era presente al momento concepitivo: le foglie di bambù di un dipinto cinese o giapponese sono fatte in un attimo, ma sono state osservate per lungo tempo. Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo. Cervello e muscoli lavorano nelle migliori condizioni: il prodotto è vivo.
[…] L’arte è un fatto mentale la cui realizzazione fisica può essere affidata a qualunque mezzo. Nelle vecchie accademie l’insegnamento è ancora spesso basato sulle antiche tecniche, e mentre gli studenti faticano attorno ad una tecnica superata, il loro cervello è già nel prossimo futuro. Anche nelle cosiddette “scuole d’arte” sarebbe necessario sveltire l’insegnamento, abbandonare i preconcetti che legano l’arte solo a certe tecniche, considerare che non tutta l’arte è destinata all’eternità, abolire l’idea di fare una scuola per la produzione di opere da élite, soprattutto non parlare più di arte ma di comunicazione visiva. Se ci sarà arte sarà un fatto assolutamente indipendente dalla scuola. Noi possiamo educare a capire l’arte (la comunicazione visiva), ma non possiamo formare artisti e tanto meno genii.
(…) facciamo quindi un programma per una scuola tecnica di comunicazione visiva, dove si mettano a punto i problemi di oggi e non di ieri, dove si faccia della ricerca sul domani sia come mezzi di comunicazione visiva, sia come metodi di lavoro. E dove si insegni, a puro scopo culturale e non operativo, anche la storia dell’arte, assieme però a studi di sociologia e psicologia. Naturalmente dicendo storia dell’arte penso alla storia dell’arte di tutti i popoli, non a quella che ci hanno insegnato che partiva dalla preistoria e saltava subito alla Grecia e all’arte di casa nostra. Oggi tutto il mondo è da conoscere e fra poco conosceremo anche se sulla luna c’è qualche forma di comunicazione visiva. Perdiamo dei valori? No, ne acquistiamo degli altri".
Da: Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, Laterza 1968
Succede anche spesso che il cervello rinunci a certe cose proprio perché si farebbe troppa fatica per averle. Il massimo desiderio dell’uomo è quello di premere un pulsante e avere quello che vuole stando sdraiato su di un comodo divano. Tutte le macchine che abbiamo inventato sono fatte apposta per sostituire i muscoli: invece di camminare si sediamo nell’auto, invece di lavorare a mano un pezzo di ferro, usiamo il tornio; il principio è quello di arrivare allo scopo non solo senza fatica fisica ma anche con maggiore precisione. Tutti sanno che un pezzo di metallo tornito a macchina è più preciso di uno tornito a mano, e che un cerchio disegnato a mano è meno preciso di un cerchio fatto col compasso. Difatti, dopo l’invenzione di questi strumenti, nessuno più fa i cerchi a mano; si può affermare anzi che quando si intuisce, osservando un oggetto fatto a mano, che l’autore ha dovuto fare molta fatica per ottenerlo, si prova come un senso di pena: un buon acrobata non fa mai vedere lo sforzo.
Anche nel campo artistico un prodotto fatto con rapidità conserva tutta la vita che era presente al momento concepitivo: le foglie di bambù di un dipinto cinese o giapponese sono fatte in un attimo, ma sono state osservate per lungo tempo. Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo. Cervello e muscoli lavorano nelle migliori condizioni: il prodotto è vivo.
[…] L’arte è un fatto mentale la cui realizzazione fisica può essere affidata a qualunque mezzo. Nelle vecchie accademie l’insegnamento è ancora spesso basato sulle antiche tecniche, e mentre gli studenti faticano attorno ad una tecnica superata, il loro cervello è già nel prossimo futuro. Anche nelle cosiddette “scuole d’arte” sarebbe necessario sveltire l’insegnamento, abbandonare i preconcetti che legano l’arte solo a certe tecniche, considerare che non tutta l’arte è destinata all’eternità, abolire l’idea di fare una scuola per la produzione di opere da élite, soprattutto non parlare più di arte ma di comunicazione visiva. Se ci sarà arte sarà un fatto assolutamente indipendente dalla scuola. Noi possiamo educare a capire l’arte (la comunicazione visiva), ma non possiamo formare artisti e tanto meno genii.
(…) facciamo quindi un programma per una scuola tecnica di comunicazione visiva, dove si mettano a punto i problemi di oggi e non di ieri, dove si faccia della ricerca sul domani sia come mezzi di comunicazione visiva, sia come metodi di lavoro. E dove si insegni, a puro scopo culturale e non operativo, anche la storia dell’arte, assieme però a studi di sociologia e psicologia. Naturalmente dicendo storia dell’arte penso alla storia dell’arte di tutti i popoli, non a quella che ci hanno insegnato che partiva dalla preistoria e saltava subito alla Grecia e all’arte di casa nostra. Oggi tutto il mondo è da conoscere e fra poco conosceremo anche se sulla luna c’è qualche forma di comunicazione visiva. Perdiamo dei valori? No, ne acquistiamo degli altri".
Da: Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, Laterza 1968
Il mondo è un bosco di simboli a interazione costante.
E’ possibile cambiare? Secondo Alejandro Jodorowsky, regista di cinema e teatro, romanziere e sceneggiatore di fumetti, è possibile. Inutile però rivolgersi ai maghi del lettino, cultori di Freud e dell’inconscio. La cura della parola è limitata ed insufficiente per cambiare. L’unico modo per riuscirci è diventare attivi, protagonisti della propria vita, darsi da fare. Solo in questo modo si riesce a spezzare l’equilibrio, immobile e spesso stagnante, della nostra mente e del nostro corpo.
Nel suo libro Psicomagia. Una terapia panica, pubblicato per la prima volta nel 1995 (traduzione italiana di Feltrinelli, 1997), Jodorowski – eclettico cileno di origine russa che ha scelto di vivere in Francia – ci introduce alla “psicomagia” una terapia che lo stesso autore definisce “singolare” ed alla quale è pervenuto passando per “l’atto poetico, l’atto teatrale, l’atto onirico e l’atto magico”. La impara da Pachita, una donna messicana di ottant’anni con la fama di guaritrice, capace di attirare tremila persone al giorno, di operare nel suo salotto (senza anestesia, strumenti idonei, conoscenze mediche di alcun tipo), di guarire mali giudicati incurabili dalla medicina tradizionale.
Se vi era trucco nel suo operato, Jodorowski non è riuscito a capirlo, pur essendo stato a lungo suo assistente. Dice invece che, ciò in cui certamente Pachita eccelleva, erano le sue conoscenze psicologiche. Jodorowski scrive: “Da lei ho imparato a trattare con le persone. Grazie a lei ho capito che tutti, o quasi tutti, siamo bambini, a volte adolescenti… Pachita sapeva che in ogni adulto, persino in quello più sicuro di sé, dorme un bambino desideroso di amore, e che il contatto fisico è il più efficace di qualsiasi parola per stabilire una relazione di fiducia e rendere il soggetto disponibile a ricevere”. Un esempio di queste sue capacità era chiedere al paziente quale fosse il prezzo che era disposto a pagare per cambiare o per guarire. Lo faceva spesso implicitamente, per far capire all'individuo quanto davvero fosse importante il cambiamento o qualcosa a cui si aspira (noi talora ci innamoriamo di un oggetto o di desiderio a tal punto da scordarcene il motivo e quindi il reale valore). Ad un giovane ragazzo sul punto di suicidarsi perché incapace di accettare la calvizie imminente, Pachita somministrò una cura che prevedeva di orinare su escrementi di topo ed applicare sulla testa questa miscela per un mese. Il ragazzo si procurò gli escrementi, vi orinò sopra, ma prima di infilarci dentro la testa, comprese che in fondo i capelli non erano per lui così importanti. Per capirlo, aveva dovuto confrontarsi con l’assurdità di quel compito: non sarebbe bastata la parola a convincerlo che il suo era un desiderio in fondo futile.
La psicomagia lavora contando sulla complice suggestionabilità della mente umana. Come ci è stato insegnato da più parti, se immaginiamo intensamente il sapore e il profumo di un limone, il nostro cervello non si rende conto che il limone non c’è e che si tratta solo di una visualizzazione ben riuscita. Analogamente, quando si finge un’operazione, il corpo umano reagisce come se fosse sottoposto ad un intervento autentico. “Se ti comunico che ti aprirò il ventre per estirparti un pezzo di fegato, se ti obbligo a sdraiarti su un tavolo e riproduco esattamente i suoni, gli odori e le manipolazioni, se senti il coltello sulla pelle, se vedi uscire il sangue, se hai la sensazione che le mie mani si rigirino nelle tue viscere ed estraggano qualcosa, sarai operato”. E’ il linguaggio simbolico che il corpo umano accetta in modo diretto ed ingenuo. Per Pachita e per la psicomagia (come per la nostra mente, che ce ne rendiamo conto oppure no), tutto ha un senso: il mondo è un “bosco di simboli a interazione costante”. Il mago, lo stregone, lo sciamano vedono in azione energie che animano un mondo in cui tutto è vivo, tutto in interrelazione, fatto di forze alleate e di nemici, nulla è neutrale, nulla si distrugge-nasce-muore, ma tutto si può trasferire, sapendolo fare, tanto il bene quanto il male.
Pachita è morta, ma la sua fama è mondiale grazie al libro di Jodorowski. Che non sa se credere alla magia, ma in fondo cosa significa credere? I benefici e l’efficacia della psicomagia sembrano riconosciuti dai molti che l’hanno vista praticare su di sé. Forse si tratta solo di un gioco collettivo, un dramma in scena in cui offriamo al nostro corpo la possibilità di auto-guarirsi. Basta un atto di fede assoluto e sincero, tanta immaginazione o disperazione, una dose di fortuna e un pizzico di magia.
Nel suo libro Psicomagia. Una terapia panica, pubblicato per la prima volta nel 1995 (traduzione italiana di Feltrinelli, 1997), Jodorowski – eclettico cileno di origine russa che ha scelto di vivere in Francia – ci introduce alla “psicomagia” una terapia che lo stesso autore definisce “singolare” ed alla quale è pervenuto passando per “l’atto poetico, l’atto teatrale, l’atto onirico e l’atto magico”. La impara da Pachita, una donna messicana di ottant’anni con la fama di guaritrice, capace di attirare tremila persone al giorno, di operare nel suo salotto (senza anestesia, strumenti idonei, conoscenze mediche di alcun tipo), di guarire mali giudicati incurabili dalla medicina tradizionale.
Se vi era trucco nel suo operato, Jodorowski non è riuscito a capirlo, pur essendo stato a lungo suo assistente. Dice invece che, ciò in cui certamente Pachita eccelleva, erano le sue conoscenze psicologiche. Jodorowski scrive: “Da lei ho imparato a trattare con le persone. Grazie a lei ho capito che tutti, o quasi tutti, siamo bambini, a volte adolescenti… Pachita sapeva che in ogni adulto, persino in quello più sicuro di sé, dorme un bambino desideroso di amore, e che il contatto fisico è il più efficace di qualsiasi parola per stabilire una relazione di fiducia e rendere il soggetto disponibile a ricevere”. Un esempio di queste sue capacità era chiedere al paziente quale fosse il prezzo che era disposto a pagare per cambiare o per guarire. Lo faceva spesso implicitamente, per far capire all'individuo quanto davvero fosse importante il cambiamento o qualcosa a cui si aspira (noi talora ci innamoriamo di un oggetto o di desiderio a tal punto da scordarcene il motivo e quindi il reale valore). Ad un giovane ragazzo sul punto di suicidarsi perché incapace di accettare la calvizie imminente, Pachita somministrò una cura che prevedeva di orinare su escrementi di topo ed applicare sulla testa questa miscela per un mese. Il ragazzo si procurò gli escrementi, vi orinò sopra, ma prima di infilarci dentro la testa, comprese che in fondo i capelli non erano per lui così importanti. Per capirlo, aveva dovuto confrontarsi con l’assurdità di quel compito: non sarebbe bastata la parola a convincerlo che il suo era un desiderio in fondo futile.
La psicomagia lavora contando sulla complice suggestionabilità della mente umana. Come ci è stato insegnato da più parti, se immaginiamo intensamente il sapore e il profumo di un limone, il nostro cervello non si rende conto che il limone non c’è e che si tratta solo di una visualizzazione ben riuscita. Analogamente, quando si finge un’operazione, il corpo umano reagisce come se fosse sottoposto ad un intervento autentico. “Se ti comunico che ti aprirò il ventre per estirparti un pezzo di fegato, se ti obbligo a sdraiarti su un tavolo e riproduco esattamente i suoni, gli odori e le manipolazioni, se senti il coltello sulla pelle, se vedi uscire il sangue, se hai la sensazione che le mie mani si rigirino nelle tue viscere ed estraggano qualcosa, sarai operato”. E’ il linguaggio simbolico che il corpo umano accetta in modo diretto ed ingenuo. Per Pachita e per la psicomagia (come per la nostra mente, che ce ne rendiamo conto oppure no), tutto ha un senso: il mondo è un “bosco di simboli a interazione costante”. Il mago, lo stregone, lo sciamano vedono in azione energie che animano un mondo in cui tutto è vivo, tutto in interrelazione, fatto di forze alleate e di nemici, nulla è neutrale, nulla si distrugge-nasce-muore, ma tutto si può trasferire, sapendolo fare, tanto il bene quanto il male.
Pachita è morta, ma la sua fama è mondiale grazie al libro di Jodorowski. Che non sa se credere alla magia, ma in fondo cosa significa credere? I benefici e l’efficacia della psicomagia sembrano riconosciuti dai molti che l’hanno vista praticare su di sé. Forse si tratta solo di un gioco collettivo, un dramma in scena in cui offriamo al nostro corpo la possibilità di auto-guarirsi. Basta un atto di fede assoluto e sincero, tanta immaginazione o disperazione, una dose di fortuna e un pizzico di magia.
Bellezza e cambiamento.
Che cos’è la bellezza? Qualcosa di assoluto ed oggettivo o piuttosto una proprietà relativa, nascosta più negli occhi di chi guarda che non una caratteristica delle cose o persone? Se guardiamo gli artefatti culturali ed artistici del passato, sembra legittimo propendere per una mutevolezza del concetto di bellezza. Abbiamo difficoltà, oggi, a trovare bella e sensuale la prosperosa venere preistorica (vedi immagine lato) o le donne giunoniche disegnate con amore da Rubens. Anche se gli psicologi evoluzionisti ci insegnano che la donna “vincente” da sempre è quella con forme morbide e colorito roseo, attributi che indicano salute e quindi maggiore capacità procreativa, basta aprire un qualsiasi giornale per capire che non è proprio così. Sembra quasi che oggi l’immagine si sia staccata dal corpo e, preso il sopravvento, vada in giro con le sue gambe. Sin da quando giochiamo con le bambole, ci abituiamo alla sottile bellezza della Barbie, una raffigurazione della donna tanto irreale che – da quanto è stato dimostrato – se fosse viva non riuscirebbe a camminare o muoversi (bacino troppo stretto, baricentro e proporzioni incompatibili con la deambulazione verticale).
Su Youtube gira da qualche tempo un interessante video (Evolution of beauty, riportato prima di questo post) che dimostra come in pubblicità non ci si limita più a prendere splendide modelle per presentarle al meglio. Le loro caratteristiche vengono modificate con abili ritocchi di Photoshop che da qualche parte aggiungono (seno, occhi), in altre tagliano (gote, vita, fianchi). Il confronto di realtà per qualsiasi donna oggi è con ideali irraggiungibili perché inesistenti. Le frontiere della possibilità non sono dettate dalla natura, dalla cosmetica (“trucco e parrucco”), dalla chirurgia plastica, dall’abilità del fotografo o del regista.
I casi di anoressia, l’alto numero di interventi chirugici estetici, il ricorso a cure cosmetiche (punturine, botox, dermoabrasioni, eccetera) dimostrano che prendersi cura di sé oggi è un lavoro a tempo pieno, indipendentemente dall’età. E ciononostante, avere un’immagine del corpo positiva diventa sempre più difficile. Per immagine del corpo si intende il modo in cui la persona si guarda, il tipo di immagine che si ha di se stessi. Si vedono ragazze, anche carine, che si sottovalutano completamente, oppure donne ancora affascinanti che si trasformano in sfingi immobili per nascondere rughe ed età. Non si rendono conto del fatto che cercano di classificare il loro aspetto nei termini degli sguardi altrui. Spesso, purtroppo, “pensano” a un sintomo di qualche tipo che dimostri loro senza possibilità di appello che non sono all’altezza. Come non capirle? E – soprattutto - come cambiare per non diventare tutti solo gli avatar di noi stessi?
Su Youtube gira da qualche tempo un interessante video (Evolution of beauty, riportato prima di questo post) che dimostra come in pubblicità non ci si limita più a prendere splendide modelle per presentarle al meglio. Le loro caratteristiche vengono modificate con abili ritocchi di Photoshop che da qualche parte aggiungono (seno, occhi), in altre tagliano (gote, vita, fianchi). Il confronto di realtà per qualsiasi donna oggi è con ideali irraggiungibili perché inesistenti. Le frontiere della possibilità non sono dettate dalla natura, dalla cosmetica (“trucco e parrucco”), dalla chirurgia plastica, dall’abilità del fotografo o del regista.
I casi di anoressia, l’alto numero di interventi chirugici estetici, il ricorso a cure cosmetiche (punturine, botox, dermoabrasioni, eccetera) dimostrano che prendersi cura di sé oggi è un lavoro a tempo pieno, indipendentemente dall’età. E ciononostante, avere un’immagine del corpo positiva diventa sempre più difficile. Per immagine del corpo si intende il modo in cui la persona si guarda, il tipo di immagine che si ha di se stessi. Si vedono ragazze, anche carine, che si sottovalutano completamente, oppure donne ancora affascinanti che si trasformano in sfingi immobili per nascondere rughe ed età. Non si rendono conto del fatto che cercano di classificare il loro aspetto nei termini degli sguardi altrui. Spesso, purtroppo, “pensano” a un sintomo di qualche tipo che dimostri loro senza possibilità di appello che non sono all’altezza. Come non capirle? E – soprattutto - come cambiare per non diventare tutti solo gli avatar di noi stessi?
Per tutto è sotto il cielo una stagione.
Per tutto è sotto il cielo una stagione
Per ogni evento un’ora
Un’ora per nascere Un’ora per morire
Un’ora per piantare Un’ora per sradicare
Un’ora per uccidere Un’ora per preservare
Un’ora per abbattere Un’ora per ricostruire
Un’ora per le lacrime Un’ora per le risa
Un’ora per il lutto Un’ora per le danze
Un’ora in cui scagli pietre un’ora in cui le accatasti
Un’ora per braccia che abbracciano un’ora per braccia che si ritraggono
Un’ora per cercarsi Un’ora per lasciarsi
Un’ora per tenere Un’ora per buttare
Un’ora per lacerare, Un’ora per ricucire
Un’ora per tacere Un’ora per parlare
Un’ora per amare Un’ora per odiare
Un’ora per la guerra Un’ora per la pace
Avrà un qualche guadagno
Chi si spende in qualche fatica?
Vedo ai figli dell’uomo
Dio dar carichi da fiaccarli
Bello è l’avvicendersi
Misurato di tutto
E riflettersi il mondo
Nei loro cuori.
Da: Qohélet. Colui che prende la parola, Adelphi, 2001
Per ogni evento un’ora
Un’ora per nascere Un’ora per morire
Un’ora per piantare Un’ora per sradicare
Un’ora per uccidere Un’ora per preservare
Un’ora per abbattere Un’ora per ricostruire
Un’ora per le lacrime Un’ora per le risa
Un’ora per il lutto Un’ora per le danze
Un’ora in cui scagli pietre un’ora in cui le accatasti
Un’ora per braccia che abbracciano un’ora per braccia che si ritraggono
Un’ora per cercarsi Un’ora per lasciarsi
Un’ora per tenere Un’ora per buttare
Un’ora per lacerare, Un’ora per ricucire
Un’ora per tacere Un’ora per parlare
Un’ora per amare Un’ora per odiare
Un’ora per la guerra Un’ora per la pace
Avrà un qualche guadagno
Chi si spende in qualche fatica?
Vedo ai figli dell’uomo
Dio dar carichi da fiaccarli
Bello è l’avvicendersi
Misurato di tutto
E riflettersi il mondo
Nei loro cuori.
Da: Qohélet. Colui che prende la parola, Adelphi, 2001
Una parabola ebrea: la storia di un monastero che...
Un monastero stava attraversando tempi difficili. In precedenza aveva fatto parte di un grande ordine che, in seguito a una persecuzione religiosa nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, aveva perso tutte le sue ramificazioni. Era decimato a tal punto che nella casa madre non rimanevano più che cinque monaci: l’Abate e altri quattro, tutti oltre i settanta. Era chiaramente un ordine in via di estinzione.
Nel profondo dei boschi che circondavano il monastero vi era una piccola capanna che il Rabbino di una città vicina usava di tanto in tanto per ritirarsi in eremitaggio. Un giorno accadde che l’Abate vi si recò in visita per vedere se il Rabbino poteva dargli qualche consiglio che potesse salvare il monastero. Il Rabbino diede il benvenuto all’Abate e si dolse insieme a lui. “So com’è” disse “lo spirito ha abbandonato la gente. Quasi nessuno viene più alla sinagoga”. Così il vecchio Rabbino e il vecchio Abate piansero insieme, e lessero passi della Torah e parlarono pacatamente di argomenti profondi.
Venne il momento in cui l’Abate dovette andar via. Si abbracciarono. “E’ stato bellissimo passare del tempo con te” disse l’Abate, “ ma sono venuto meno allo scopo per il quale ero venuto. Non avresti qualche consiglio da darmi per salvare il monastero?”.
“No, mi spiace” risposte il Rabbino, “non ho consigli da darti. La sola cosa che posso dirti è che il Messia è uno di voi”.
Quando gli altri monaci udirono le parole del Rabbino, si chiesero quale possibile significato potessero avere. “Il Messia è uno di noi? Uno di noi, qui, al monastero? Pensate che intendesse l’Abate? Certo, dev’essere l’Abate, che è stato la nostra guida così a lungo. D’altra parte, forse si riferiva a Fratello Thomas, che è senza dubbio un sant’uomo. O forse intendeva Fratello Elrod, che è così irritabile? Ma d’altra parte Elrod è molto saggio. Sicuramente non può essersi riferito a Fratello Phillip: è troppo passivo. Ma d’altra parte, quando hai bisogno di lui è sempre lì, come per magia. Certamente non si riferiva a me, ma supponendo che sia così? Oh, Signore, non io! Non potrei chiederti tanto, non è così?”
Mentre si interrogavano in questo modo, i vecchi monaci cominciarono a trattarsi reciprocamente con straordinario rispetto, nell’eventualità che uno di loro potesse essere il Messia. Dal momento che la foresta dove era situato era bellissima, di tanto in tanto la gente andava a visitare il monastero, per fare una merenda o per camminare lungo i vecchi sentieri, la maggior parte dei quali conducevano alla cappella in rovina. Queste persone percepirono l’aura di straordinario rispetto che circondava i cinque vecchi monaci, e permeava l’atmosfera. Iniziarono ad andare più spesso, portando i loro amici, e i loro amici portarono altri amici. Alcuni degli uomini più giovani che venivano in visita cominciarono a conversare coi monaci. Dopo un po’, uno chiese se poteva entrare a far parte del monastero. Poi un altro, e un altro ancora. Nel giro di pochi anni, il monastero tornò a essere un ordine prospero e, grazie al regalo del Rabbino, una vibrante, autentica comunità di luce e amore per l’intero reame.
Tratto da Rosamund Stone Zander e Benjamin Zander, L’arte del possibile. Diventare gli artefici del proprio successo, Il Sole 24 ore, 2001… un ottimo libro sul cambiamento e sul mondo della possibilità!
Nel profondo dei boschi che circondavano il monastero vi era una piccola capanna che il Rabbino di una città vicina usava di tanto in tanto per ritirarsi in eremitaggio. Un giorno accadde che l’Abate vi si recò in visita per vedere se il Rabbino poteva dargli qualche consiglio che potesse salvare il monastero. Il Rabbino diede il benvenuto all’Abate e si dolse insieme a lui. “So com’è” disse “lo spirito ha abbandonato la gente. Quasi nessuno viene più alla sinagoga”. Così il vecchio Rabbino e il vecchio Abate piansero insieme, e lessero passi della Torah e parlarono pacatamente di argomenti profondi.
Venne il momento in cui l’Abate dovette andar via. Si abbracciarono. “E’ stato bellissimo passare del tempo con te” disse l’Abate, “ ma sono venuto meno allo scopo per il quale ero venuto. Non avresti qualche consiglio da darmi per salvare il monastero?”.
“No, mi spiace” risposte il Rabbino, “non ho consigli da darti. La sola cosa che posso dirti è che il Messia è uno di voi”.
Quando gli altri monaci udirono le parole del Rabbino, si chiesero quale possibile significato potessero avere. “Il Messia è uno di noi? Uno di noi, qui, al monastero? Pensate che intendesse l’Abate? Certo, dev’essere l’Abate, che è stato la nostra guida così a lungo. D’altra parte, forse si riferiva a Fratello Thomas, che è senza dubbio un sant’uomo. O forse intendeva Fratello Elrod, che è così irritabile? Ma d’altra parte Elrod è molto saggio. Sicuramente non può essersi riferito a Fratello Phillip: è troppo passivo. Ma d’altra parte, quando hai bisogno di lui è sempre lì, come per magia. Certamente non si riferiva a me, ma supponendo che sia così? Oh, Signore, non io! Non potrei chiederti tanto, non è così?”
Mentre si interrogavano in questo modo, i vecchi monaci cominciarono a trattarsi reciprocamente con straordinario rispetto, nell’eventualità che uno di loro potesse essere il Messia. Dal momento che la foresta dove era situato era bellissima, di tanto in tanto la gente andava a visitare il monastero, per fare una merenda o per camminare lungo i vecchi sentieri, la maggior parte dei quali conducevano alla cappella in rovina. Queste persone percepirono l’aura di straordinario rispetto che circondava i cinque vecchi monaci, e permeava l’atmosfera. Iniziarono ad andare più spesso, portando i loro amici, e i loro amici portarono altri amici. Alcuni degli uomini più giovani che venivano in visita cominciarono a conversare coi monaci. Dopo un po’, uno chiese se poteva entrare a far parte del monastero. Poi un altro, e un altro ancora. Nel giro di pochi anni, il monastero tornò a essere un ordine prospero e, grazie al regalo del Rabbino, una vibrante, autentica comunità di luce e amore per l’intero reame.
Tratto da Rosamund Stone Zander e Benjamin Zander, L’arte del possibile. Diventare gli artefici del proprio successo, Il Sole 24 ore, 2001… un ottimo libro sul cambiamento e sul mondo della possibilità!
La via dell'essere è il fare.
Torniamo alla domanda: come trasformare i pensieri in atti? Ho già detto che è difficile correggersi, anche quando si fa di se stessi l'oggetto d'analisi. Ho dato un esempio per dimostrare che non si “corregge”, ma che si sviluppano nuovi atteggiamenti. Come probabilmente avete già pensato, l’intenzione, per essere messa a profitto, deve essere seguita da un’azione corretta, al fine di poter acquisire una nuova abitudine, migliore della precedente. Senza questo, l’analisi è inutile come il pensiero fine a se stesso. Qualunque cosa si intraprenda, nessun progresso è possibile se non si acquisiscono delle nuove abitudini. Senza l’azione, tutti i pensieri e le analisi di se stessi non portano a niente. È per questo che è essenziale creare l’abitudine ad agire, di mettere le cose in pratica. Qualunque abilità può essere acquisita con la ripetizione costante. E noi possiamo applicare immediatamente questa regola d’ora. Se avete intenzione di fare qualcosa, per insignificante che sia, fatelo subito senza dilazioni. Incoraggiatevi da soli e portate i vostri progetti a buon fine senza scoraggiarvi. Quando l’abitudine si è radicata, ciò che vi sembrava irrealizzabile potrà compiersi e le porte si apriranno su nuovi orizzonti.
Il detto “si impara facendo” non è così semplice come appare a prima vista, ma non rifiutatelo come se non vi riguardasse. Riguarda tutti noi.
da: Shinichi Suzuki, Crescere con la musica, Nuova Carisch 1996
Il detto “si impara facendo” non è così semplice come appare a prima vista, ma non rifiutatelo come se non vi riguardasse. Riguarda tutti noi.
da: Shinichi Suzuki, Crescere con la musica, Nuova Carisch 1996
Non ci può essere un tutto dato, ma solo un pulviscolo di possibilità.
Il brano che segue è tratto dall’Appendice “Cominciare e finire” alle Lezioni Americane di Calvino, a mio giudizio uno dei libri più mirabili del secolo scorso, da leggere e rileggere all’infinito, perché sempre capace di stimoli nuovi, come solo i grandi libri sanno fare. Qualsiasi commento sarebbe superfluo e fuori luogo. Solo un suggerimento: comperatevi il libro e leggetelo, leggetelo, leggetelo. Lascio la parola a Calvino:
[…] Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l’allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero. L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso….
[…] Forse è questa ansia per il problema del cominciare e del finire che ha fatto di me più uno scrittore di short-stories che di romanzi, quasi non riuscissi mai a convincermi che il mondo ipotizzato dalla mia narrazione è un mondo a se stante, autonomo, autosufficiente, in cui ci si può installare definitamente o almeno per tempi lunghi. Invece mi prende continuamente il bisogno di prenderlo dal di fuori, questo mondo ipotetico, come uno dei tanti mondi possibili, un’isola in un arcipelago, un corpo celeste in una galassia. Il mio problema potrebbe essere enunciato così: è possibile raccontare una storia al cospetto dell’universo? Come è possibile isolare una storia singolare se essa implica altre storie che la attraversano e la “condizionano” e queste altre ancora, fino a estendersi all’intero universo? E se l’universo non può essere contenuto in una storia, come si può da questa storia impossibile staccare delle storie che abbiano un senso compiuto?
[…] Non ci può essere un tutto dato, attuale, presente, ma solo un pulviscolo di possibilità che si aggregano e si disgregano. L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo”.
[…] Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l’allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero. L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso….
[…] Forse è questa ansia per il problema del cominciare e del finire che ha fatto di me più uno scrittore di short-stories che di romanzi, quasi non riuscissi mai a convincermi che il mondo ipotizzato dalla mia narrazione è un mondo a se stante, autonomo, autosufficiente, in cui ci si può installare definitamente o almeno per tempi lunghi. Invece mi prende continuamente il bisogno di prenderlo dal di fuori, questo mondo ipotetico, come uno dei tanti mondi possibili, un’isola in un arcipelago, un corpo celeste in una galassia. Il mio problema potrebbe essere enunciato così: è possibile raccontare una storia al cospetto dell’universo? Come è possibile isolare una storia singolare se essa implica altre storie che la attraversano e la “condizionano” e queste altre ancora, fino a estendersi all’intero universo? E se l’universo non può essere contenuto in una storia, come si può da questa storia impossibile staccare delle storie che abbiano un senso compiuto?
[…] Non ci può essere un tutto dato, attuale, presente, ma solo un pulviscolo di possibilità che si aggregano e si disgregano. L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo”.
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